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la piccola maestra, che aveva anche due terribili occhi neri, si rivolgeva a lui di preferenza, chiamandolo col solo cognome e parlandogli un po’ in dialetto sardo, un po’ in lingua italiana.
Quest’attenzione ostinata non gli piaceva, ma gli giovò: dopo tre sole ore di scuola egli sapeva già leggere e scrivere due vocali; è vero che una era la vocale o, ma ciò non toglieva importanza al suo merito.
Verso le undici, però, egli era già stufo della scuola e della maestra, nonchè del vestito nuovo che lo impacciava assai: sbadigliava e pensava al cortiletto, al sambuco, al cestino dei fichi d’india ove ogni tanto egli usava cacciar le manine agguerrite contro le spine.
Non veniva mai l’ora d’andar via, dunque? Molti compagni piangevano, e la maestra si sfiatava invano, predicando l’amor della scuola e la tranquillità.
Finalmente l’uscio saprì: comparve e disparve come un lampo la figura sbarbata del bidello, — anche lui vestito in costume, — risuonò la sua voce:
— È ora! — i bambini si precipitarono verso la porta spingendosi, gridando, ed Anania rimase ultimo accanto alla maestra che lo accarezzò sulla testa con la piccola mano scarna.
— Bravo, — gli disse: — sei il figlio di Anania Atonzu?
— Sissignora.
— Bravo. Tanti saluti a tua madre.