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— Ohi, ohi, se non fai da bravo! Ti mando da Maestro Pane a far le casse da morto....
Bustianeddu venne a prendere Anania e lo accompagnò con una certa aria di sprezzante protezione. La mattina era splendida; nell’aria limpida passava un dolce odore di mosto, di caffè, di vinaccia in fermentazione; le galline ed i galli cantavano per le strade; i contadini si recavano in campagna coi lunghi carri coperti di pampini, preceduti dai cani allegri e frementi.
Anania si sentiva felice, benchè il compagno parlasse male della scuola e dei maestri.
— Il tuo maestro, Ananì, pare un gallo, col berretto rosso e la voce rauca. Io l’ho dovuto sopportare per un anno, che il diavolo gli roda il calcagno.
Le scuole erano all’altra estremità di Nuoro, in un convento circondato da orti melanconici; la classe di Anania, al pianterreno, guardava sulla strada solitaria; molta polvere copriva le pareti, la cattedra del maestro sembrava rosicchiata dai topi; macchie d’inchiostro, incisioni e graffiti, nomi che parevano geroglifici, decoravano i banchi.
Anania provò una vera delusione nel veder comparire, invece del maestro descrittogli da Bustianeddu, una maestra vestita in costume, piccola e pallida, con due baffetti neri sul labbro superiore come li aveva anche zia Tatàna.
Quaranta bambini animavano la classe. Anania era il più grande di tutti, e forse per ciò