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— Senti, — propose Bustianeddu, — mettiamogli delle spille, nel posto dove si corica.

— Perchè vuoi mettergli delle spille?

— Perchè si punga, ecco: allora ballerà davvero. Io ho le spille.

— Mettiamole, — rispose l’altro, sebbene a malincuore.

L’ubriaco ballava ancora, barcollante, cascante, tendendo le mani verso il bicchiere; e la gente rideva.

Ma l’allegria giunse al colmo quando entrò nel molino Nanna, l’ubriacona. Quella sera, però, ella era sana, aveva le vesti pulite e la faccia meno ripugnante del solito; i suoi occhietti brillavano d’una certa intelligenza. Era stata durante il giorno a cogliere erbe mangerecce selvatiche, e veniva a domandare un po’ d’olio per condirle. Vedendo Efes in quello stato, fatto ludibrio della gente, ella ebbe un lampo negli occhi; si avanzò, prese l’infelice per un braccio e nonostante le comiche proteste del ricco contadino, lo costrinse a sedersi su un sacco di olive.

— Non ti vergogni, Efes Cau? Non hai occhi? Non vedi che tutti questi mendicanti, tutte queste immondezze ridono di te? E perchè hanno raddoppiato le risa vedendomi? Eppure oggi io ho lavorato, come è vero Dio, ho lavorato. Ah, Efes, Efes! Ricordati come era ricca la tua casa! Io venivo per portare l’acqua dalla fontana, e mi ricordo che tua madre aveva i bottoni d’oro della camicia grossi