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Il frantoio dava da una parte su un cortile e dall’altra su un orto che scendeva fino allo stradale sopra la valle; un bell’orto alquanto selvatico, con roccie, siepi di biancospino e di fichi d’india, peschi e mandorli e una quercia dal tronco corroso, nido di grosse termiti, di cavallette, di bruchi e d’uccelli.
Anche quest’orto apparteneva al signor Carboni, ed era il sogno di tutti i monelli del vicinato; ma zio Pera Sa Gattu (il gatto) il vecchio ortolano sempre armato d’un randello, non lasciava mai penetrare nessuno. Da quest’orto si vedevano le belle ed agili fanciulle nuoresi scendere alla fontana con l’anfora sul capo come le donne bibliche: e zio Pera le sbirciava con occhi da satiro mentre seminava le fave e i fagiuoli, mettendo tre semi per buco, e gridando per spaventare i passeri.
Dal finestrino del molino Anania e Bustianeddu guardavano anch’essi con intenso desiderio l’orto soleggiato, aspettando che l’ortolano si assentasse: ma zio Pera, ch’era un ometto secco, dal viso rosso-terreo, sbarbato e sarcastico, amava troppo le sue fave e i suoi cavoli per abbandonarli durante la giornata: solo verso sera saliva al mulino per riscaldarsi e chiacchierare.
Era un’annata abbondante di olive; anche i proprietari dei paesi vicini s’affannavano per ottenere l’opera del frantoio che funzionava giorno e notte; per ogni macinata di circa due ettolitri d’olive si lasciavano due litri d’olio.