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Anania scendeva, correva, inciampava, rotolava: ogni tanto si palpava il petto in cerca del sacchettino. La nebbia diradavasi; in alto il cielo appariva d’un azzurro umido solcato come da grandi pennellate di biacca: le montagne si delincavano livide nella nebbia. Un raggio giallo di sole illuminava finalmente la chiesetta di Gonare sulla cima del monte piramidale, che sorgeva su uno sfondo di nuvole color piombo.

— Andiamo là? — domandò Anania, additando un bosco di castagni, umidi di nebbia e carichi di frutti spinosi spaccati. Un uccellino strideva nel silenzio dell’ora e del luogo.

— Più avanti, — disse Olì.

Anania riprese le sue corse sfrenate: mai s’era spinto tanto avanti nelle sue escursioni, ed ora questo continuo scendere a valle, la natura diversa, l’erba che copriva le chine, i muri verdi di musco, le macchie di noccioli, i cespugli coperti di bacche rosse, gli uccellini che pigolavano, tutto gli riusciva nuovo e piacevole.

La nebbia svaniva, il sole trionfante schiariva le montagne; le nuvole sopra monte Gonare avevano preso un bel colore giallo-roseo, sul cui sfondo la chiesetta appariva chiara e sembrava vicina a chi la guardava.

— Ma dov’è questo diavolo di luogo? — chiese Anania, volgendosi a sua madre con le manine aperte, e fingendosi sdegnato.

— Subito. Sei stanco?

— Non sono stanco! — egli gridò, rimettendosi a correre.