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versato con tanta gioia nell’anima, e nell’avvicinarsi a Nuoro, il senso della realtà lo stringeva acerbamente.
Appena arrivato cercò il sacchettino, e per una idea superstiziosa, — poichè egli credeva che le cose prevedute non avvengono, — lo avvolse in un fazzoletto di colore. Ma poi pensò che i tristi avvenimenti di quei giorni egli li aveva sempre attesi e preveduti, e s’irritò contro la sua puerilità.
— Del resto, perchè debbo mandare il sacchettino? Perchè debbo contentarla? — disse fra sè, sbattendo l’involto contro il muro. Ma subito lo raccattò, pensando: — Per zia Grathia. Alle quattro vado dal signor Carboni e gli dico tutto, — decise poi. — Bisogna finirla oggi stesso. Bisogna esser uomini. Ed ora dormiamo.
Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. Eran circa le due; un meriggio caldissimo e silenzioso. Egli aveva ancora nelle orecchie il rombo del vento, ricordava il freddo della notte passata a Fonni, e provava una strana impressione. Gli pareva d’esser caduto in un abisso roccioso, fra montagne erte desolate che soffocavano il breve orizzonte; ricordi lontani gli risalivano dal profondo dell’anima: le notti di febbre a Roma, il fragore del vento su Bruncu Spina, una poesia del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa, la canzone del mandriano che era passato nella straducola la sera in cui zia Tatàna aveva chiesto la mano di Margherita.