Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/258


— 252 —


— Finisci di mangiare, adesso: parleremo poi, figlio. Non ti piace quel vino?

Ma Anania la guardò con rabbia e balzò in piedi.

— Parlate! — le impose.

— Ah, Santissimo Signore, — si lamentò zia Grathia, sospirando e schioccando le labbra, — che cosa vuoi ch’io ti dica? Perchè non finisci di cenare, Anania, figlio caro?... Parleremo poi....

Egli non sentiva e non vedeva più nulla.

— Parlate! Parlate! Voi sapete tutto, dunque? Dov’è? È viva, è morta, dov’è? Dov’è? Dov’è?

Quel «dov’è?» lo ripetè almeno venti volte, mentre s’aggirava automaticamente intorno alla cucina, piegando, spiegando, stirando il tovagliuolo, mettendoselo sul viso, guardando attraverso il buco: pareva un po’ impazzito, ma più irritato che commosso.

— Calmati, — cominciò a dirgli la vecchia, andandogli appresso, — io credevo che tu sapessi.... Sì, ella è viva, ma non è la donna che ti ha ingannato fingendosi tua madre.

— Non è stata lei a ingannarmi, nonna! L’ho creduto io.... Ella non sa neppure che io abbia supposto.... Ah, dunque non è lei? — aggiunse a bassa voce, con meraviglia, come se fino a quel momento fosse stato certo che Maria Obinu era sua madre. — Ma parlate dunque! — esclamò poi. — Perchè mi tenete così sulla corda? Perchè non mi avete parlato ancora di lei? Dov’è? dov’è?