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soleggiata; deserto tutto il villaggio che nella desolazione del meriggio pareva una stazione preistorica da secoli abbandonata.

Anania guardò curiosamente intorno. Nulla era cambiato: miseria, stracci, fuliggine, un po’ di cenere sul focolare, grandi tele di ragno fra le scheggie del tetto; e, imperatore truce di quel luogo di leggende, il lungo e vuoto fantasma dal gabbano nero appeso al muro terree.

— Zia Grathia, dove siete? — gridò Anania, aggirandosi intorno. — Zia Grathia?

Finalmente la vedova, ch’era andata ad attingere acqua ad un pozzo vicino, rientrò, con un malune1 sul capo e la secchia in mano. Era sempre la stessa, stecchita, giallastra, col viso spettrale circondato da una benda di tela sporca: gli anni erano passati senza invecchiare oltre quel corpo già disseccato ed esaurito dalle emozioni della lontana giovinezza.

Nel vederla Anania si turbò: un fiotto di ricordanze gli salì dalle profondità dell’anima; gli parve di ricordare tutta una esistenza anteriore, di rivedere uno spirito che aveva già albergato nel suo corpo prima dello spirito che lo animava al presente.

Bonas dies! — salutò la vedova, guardando meravigliata il bel giovine sconosciuto. E depose prima la secchia, poi il malune, lentamente, guardando sempre lo straniero. Ma appena egli sorrise chiedendole: — Ma non

  1. Recipiente di sughero.