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ricamavano. Due carabinieri, uno studente annoiato, un vecchio nobile, che era anche contadino, chiacchieravano davanti alla bottega d’un falegname, intorno alla cui porta stavano appesi molti quadretti sacri dipinti a vivi colori.

Dopo mezz’ora di fermata la corriera ripartì.

Ecco le rovine della chiesetta, ecco gli orti, ecco la piantagione di patate dove l’altra volta Olì ed Anania si erano fermati.

Egli ricordò la donna che zappava, con le sottane cucite fra le gambe, e il gatto bianco che si slanciava contro la lucertolina verde guizzante sul muro. Nell’arco del mantice i paesaggi si disegnavano sempre più freschi, con sfondi luminosi: la piramide grigiastra di monte Gonare, le linee cerule e argentee della catena del Gennargentu apparivano come incise sul metallo del cielo, sempre più vicine, sempre più maestose. Ah, sì; ora davvero Anania respirava l’aria natia, e sentiva tutti gli istinti atavici.

— Vorrei balzare giù dalla vettura, correre su per le chine, fra l’erba ancora fresca, fra le macchie e le roccie, gridando di gioia selvaggia, imitando il puledro sfuggito al laccio e ritornato alla libertà delle tancas. Sì, — egli pensava, mentre la corriera rallentava la corsa su per la strada in salita, — io ero nato per fare il pastore. Sarei stato un poeta, forse un delinquente, forse un bandito fantasioso e feroce. Oh, contemplare le nuvole dall’alto d’un monte! Figurarsi d’essere il pastore d’una torma di nuvole: vederle errare sul cielo argenteo,