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le tende dei negozi; l’aria odorava di vernici, di droghe e di vivande.

Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente:

— Corvi!

A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all’ultimo piano e suonò.

Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei.

— La signora Obinu?

— Sono io, — rispose la donna con voce grave.

— No, — egli pensò, — non è lei; non è la sua voce.

Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere.

— Vorrei una camera; io sono sardo, studente, — disse, esaminando la donna da capo a piedi.

Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè