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vera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie ferme sull’orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, — tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l’idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava.
La primavera palpitava al di là dell’orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d’erbe alte aromatiche e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotte le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all’ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l’anima sarda.
Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s’immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose.
Le idee venivano e passavano nella sua mente,