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si sentì un altro, agile, forte, felice. Si era addormentato in un tetro paese di dolore, fra onde livide vigilate da una luna sanguigna: si svegliava in mezzo ad un mare d’oro, in un paese di luce, — vicino a Roma.
— Roma! — pensò, palpitando di gioia. — Roma, Roma! Patria eterna, abisso d’ogni male e fonte d’ogni bene!
Gli pareva di poterla abbracciare tutta, di muovere alla conquista del mondo intero. Già a Civitavecchia, attraversando la città umida e nera sotto il cielo mattutino, tutto gli sembrava bello, e diceva allo studente Daga: — Vedi, mi par d’essere nel vestibolo d’una grotta marina meravigliosa.
Il Daga, che aveva già vissuto un anno a Roma, sorrideva beffardo, invidiando l’entusiasmo enfatico del suo compagno.
L’arrivo rombante del diretto diede al giovane provinciale sardo un senso di terrore, la prima impressione vertiginosa d’una civiltà quasi violenta e distruggitrice. Gli parve che il mostro dagli occhi rossi lo portasse via, come il vento porta la foglia, lanciandolo nel turbine della vita.
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A Roma i due studenti andarono ad abitare al terzo piano d’una casa in piazza della Consolazione, presso una vedova, madre di due