Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/141


— 135 —

prima di recarti dal padrino. Come? Scuoti il capo? Non andrai stamattina dal padrino? Cosa guardi? C’è qualche formica nel caffè?

Egli guardava fisso la piccola scodella rossa filettata d’oro, che serviva esclusivamente per lui: addio piccola scodella; ancora domani e poi addio. Le lagrime gli salivano agli occhi.

— Andrò più tardi dal padrino; ora finisco di preparare la roba, — disse piano piano, come parlando alla scodella.

— E se non ci rivedessimo più? — chiese poi alla donna. — S’io dovessi morire prima del ritorno? E forse sarebbe meglio... Perchè dobbiamo vivere a lungo? Giacchè si deve morire è meglio morir presto.

Zia Tatàna lo guardò; fece un segno di croce per aria, e disse: — Tu hai fatto cattivi sogni, stanotte? Perchè parli così, agnellino senza lana? Ti fa male il capo?

— Voi non capite niente! — proruppe egli, balzando in piedi.

Entrò nella sua cameretta e cominciò a riporre in una piccola valigia i libri e gli oggetti più cari; e di tanto in tanto volgeva gli occhi alla finestra aperta, nel cui sfondo si scorgeva un lembo di cielo autunnale che pareva una tela graziosamente dipinta: una pianura bianchiccia con un laghetto azzurro.

Che avrebbe egli veduto dalla finestra della cameretta che l’aspettava a Cagliari? Il mare?

Il mare vero, le lontananze infinite dell’acqua