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scena, con gli stessi personaggi: ancora il sambuco profumava l’aria e gettava foglie nella cameretta silenziosa; il vento portava dalle valli il soffio della selvaggia primavera nuorese; le api ronzavano nell’aria tiepida, e ancora, a intervalli, vibrava il lamento di Rebecca.

Anania frequentava tutte le case del vicinato, e specialmente la domenica s’indugiava qua e là, portando nei miseri ambienti neri l’eleganza del suo vestito bleu, della cravatta rossa e del colletto alto, sotto il quale celavasi il cordoncino dell’amuleto di Olì.

L’indomani del sogno idilliaco fatto al chiaro di luna sul davanzale della sua finestruola, appena Zuanne ritornò dal Tribunale egli lo condusse fuori, con la buona intenzione di fargli bere un calice di anisetta nella bettola del vicinato.

— Chissà quando ci rivedremo! — disse il mandriano. — Quando dunque verrai a trovarci? Vieni per la festa dei Martiri.

— Non posso. Ho tanto da studiare: quest’anno devo prendere la licenza ginnasiale.

— E poi dove andrai? In continente?

— Sì! — rispose Anania con impeto. — Andrò a Roma.

— Ci sono tanti conventi a Roma, e più di cento chiese, non è vero?

— Oh! più di cento, certamente.

— Ieri notte tuo padre raccontava che quando era soldato....

— Dovrai fare il servizio militare, tu? — in-