Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/297


— 289 —


Dopo la confessione non parlò più, non si lamentò più. Stava col capo coperto, ma donna Ester ogni volta che sollevava il panno vedeva il povero viso sempre più piccolo, violaceo, raggrinzito come una prugna secca. Una sera egli aprì gli occhi fissandola con quel suo sguardo di spavento che le destava tanta pietà, e mormorò senza più voce:

— È lunga, donna Ester mia! Abbiano pazienza.

— Che cosa è lunga, Efix?

— La strada.... Non s’arriva mai!

Gli sembrava infatti di camminare sempre. Saliva un monte, attraversava una tanca; ma arrivato al confine di questa ecco un altro monte, un’altra pianura; e in fondo il mare.

Adesso però camminava tranquillo, e solo gli dispiaceva di non arrivar mai per sgombrare del suo corpo la casa delle sue padrone: ma un giorno, o una notte — non capiva più che tempo era — gli parve d’esser giunto al muricciuolo del poderetto, su in alto sul ciglione delle canne, e di sdraiarsi pesantemente sulle pietre. Le canne frusciavano, piegandosi fino a lui per toccarlo, per lambirlo con le foglie che avevano qualche cosa di vivo, come dita, come lingue. E gli parlavano, e una gli pungeva l’orecchio perchè sentisse meglio: era un mormorio misterioso che ripeteva il susurro dei fantasmi della valle, la voce del fiume, il salmodiare dei