Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/291


— 283 —

si curvò e tentò di sollevarlo fra le sue braccia.

— Zitto, babbèo. Zitto!

Ma Efix si mise a gemere, scuotendosi debolmente come un uccello ferito che tenta ancora di volare.

— Voi volete farmi morire prima dell’ora....

Allora il Dottore fece un cenno con la mano e con la testa sollevando gli occhi al cielo, e don Predu rimise giù il malato, lo ricoprì, non scherzò più.

Così lo lasciarono. E le ore e i giorni passavano, ed Efix nel delirio sognava di camminare, camminare coi ciechi, attraverso le valli e le tancas dell’altipiano, e sognava le feste, i soldi che cadevano davanti a lui, le donne pietose, i bei giovani sui cavalli balzani che correvano sulla costa del Monte e da lontano gli lanciavano monete e parole mordenti.

Ma alte pareti affumicate, con chiazze rosse di rame, con una panca in fondo, circondavano sempre l’orizzonte: al di là non si andava, mentre egli aveva bisogno di andare al di là, per liberarsi del suo peso, per guarire del suo dolore.

Due volte Noemi lo trovò alzato che tentava di uscire fuori del cortile. Levarono la chiave dal portone.

Donna Ester si curvava su lui, gli accomodava il guanciale, la coperta addosso, gli tastava il polso.