Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 257 — |
lunghe foglie sparse per terra come spade rotte. E le superstiti, un poco sfrondate anch’esse, pareva si curvassero a guardare le compagne morte, accarezzandole con le loro foglie ferite.
— Prendetevi dell’uva, zio Efix, — gli disse il ragazzo, salutandolo pensieroso: — se don Predu vi rimanda qui son contento: così passeremo il tempo a contar le storie. E andate da Grixenda a salutarla.
Ed ecco Efix che risale la strada verso il paese. L’alba è quasi fredda e le colline bianche sembrano coperte di neve. I monticelli sopra i paesetti sparsi per la pianura, dopo il Castello, fumano come carbonaie coperte: e tutto è silenzioso e morto nel mattino roseo. Ma Efix ritrovava la sua anima, e gli sembrava di tornare alla casa del suo dolore come il figliuol prodigo, dopo aver dissipato tutte le sue speranze.
Andò dritto dall’usuraia, e rise accorgendosi che sebbene non lo riconoscesse subito ella lo accoglieva benevolmente credendolo uno straniero, un servo mandato da qualche proprietario per chiederle denaro.
— Kallina, i corvi ti becchino, non mi riconosci? Anche tu sei diminuita, però.
Ella aveva le scarpette in mano; le lasciò cadere una dopo l’altra, poi si curvò a riprenderle.
— Efix, vedi? Come io ti ho maledetto