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— Dimmi, Zuannantoni, don Giacinto è venuto in paese?

— Mio cognato, — disse il ragazzo con orgoglio, — è venuto, sì, questo luglio scorso. Grixenda stava sempre male: un altro poco e la trovava morta. Sì, è venuto....

Tacque, col viso reclinato sulla fisarmonica, gli occhi gravi di ricordi.

— Dimmi tutto; puoi dirmelo, Zuannantò. Io sono come di famiglia.

— Sì, ecco, vi dirò. Dunque Grixenda stava male; si consumava come un lucignolo. Di notte aveva la febbre: s’alzava come una matta e diceva: voglio andare a Nuoro. Ma quando si trattava di aprir la porta non poteva. Capite: c’era fuori la nonna che spingeva la porta e le impediva di andare. Allora, una volta, sono andato io, a Nuoro. Ho trovato mio cognato, in un luogo che pare l’inferno: nel Molino. Gli dissi tutto. Allora egli domandò tre giorni di permesso e venne con me. Aveva preso un cavallo a nolo, perchè costa meno della carrozza; e mi prese in groppa: era bello, andare così, pareva di esser giganti. Così ha chiesto Grixenda in moglie, e così per i Santi si sposano.

— A chi l’ha chiesta: in moglie?

— Non so; a lei stessa!

— Dimmi, Zuannantoni, don Giacintino è stato dalle sue zie, dalle mie padrone?

Il ragazzo esitò nuovamente.