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con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo.
Ma sia fatta la volontà di Dio e andiamo avanti. Ecco a un tratto la valle aprirsi e sulla cima a picco d’una collina simile a un enorme cumulo di ruderi, apparire le rovine del Castello: da una muraglia nera una finestra azzurra vuota come l’occhio stesso del passato guarda il panorama melanconico roseo di sole nascente, la pianura ondulata con le macchie grigie delle sabbie e le macchie giallognole dei giuncheti, la vena verdastra del fiume, i paesetti bianchi col campanile in mezzo come il pistillo nel fiore, i monticoli sopra i paesetti e in fondo la nuvola color malva e oro delle montagne Nuoresi.
Efix cammina, piccolo e nero fra tanta grandiosità luminosa. Il sole obliquo fa scintillare tutta la pianura; ogni giunco ha un filo d’argento, da ogni cespuglio di euforbia sale un grido d’uccello; ed ecco il cono verde e bianco del monte di Galte solcato da ombre e da striscie di sole, e ai suoi piedi il paese che pare composto dei soli ruderi dell’antica città romana.
Lunghe muriccie in rovina, casupole senza tetto, muri sgretolati, avanzi di cortili e di recinti, catapecchie intatte più melanconiche degli stessi ruderi fiancheggiano le strade in pendìo selciate al centro di grossi macigni;