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ne andò ed egli rimase solo, a distanza, seduto su una pietra ad aspettare.

Aveva paura ma per nulla al mondo avrebbe abbandonato il cieco. Rimase lì un’ora, due, tre. Il luogo era silenzioso: la gente era giù alla festa e il villaggio in quell’angolo pareva disabitato. Il sole batteva sui tetti di scheggie delle casette basse e umili come capanne, il vento del pomeriggio portava un odore di erbe aromatiche e qualche grido, qualche suono lontano.

Quella pace aumentava il turbamento di Efix. Per la prima volta gli appariva chiaro, come la roccia là sui monti attraverso l’aria diafana, l’errore della sua penitenza. No, non era questo ch’egli aveva sognato.

E le sue povere padrone che pativano laggiù, sole, abbandonate? Per la prima volta pensò di tornare, di finire i suoi giorni ai loro piedi come un cane fedele. Tornare, condannarsi anche l’anima, ma non farle soffrire: questa era la vera penitenza. Ma non poteva abbandonare il compagno. Ed ecco che la porta della caserma si apre e i due ciechi ne escono, tenendosi per mano come fratelli.

Efix andò loro incontro, prese per mano il suo compagno. Così in fila tornarono al cortile della Basilica, e vi fecero il giro cercando il falso malato. La gente ballava e suonava, il tramonto tingeva di rosa il campa-