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— Devo parlarti. — disse Efix.

— E son qui, parla.

Sedettero nella cucina, ma il borghese preparava la cena ed Efix non voleva parlare in sua presenza: da parte sua Giacinto scherzava e rideva e non sollecitava il colloquio.

Attraverso il finestrino si vedeva sulle roccie dell’Orthobene il Redentore piccolo come una rondine, e dall’orto saliva un odore di violacciocche che ricordava il cortile laggiù delle dame.

Efix si sentiva dolere il cuore ma non poteva parlare. Solo disse:

— Giacintì, sei diventato allegro, mi pare!

— Che fare? Impiccarmi?

Ma l’ometto curvo a cuocere i maccheroni sollevò gli occhi tristi e Giacinto rise e guardò le travi del tetto.

— Sai, Efix, i primi giorni che venni qui, a pensione da questo buon servo di Dio, tentai davvero di appiccarmi. Rammentate, Micheli? — l’ometto accennò di sì, ma scuotendo la testa con rimprovero. — Ed egli mi salvò, mi mise a letto come un bambino; mi legava, quando usciva: avevo la febbre alta: ma poi passò tutto, e adesso sono allegro e contento. Vero, Micheli? Non sono allegro e contento? Su, Efix; parla. Tu certo sei venuto a turbare la mia allegria.

— La vecchia Pottoi è morta, — disse Efix