Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/184


— 176 —

— Ebbene, le dirò la verità. Io spero che Giacinto riesca a pagare.

Allora don Predu si riversò ridendo sulla sedia, col petto gonfio, i denti scintillanti fra le labbra carnose. Anche le sue dita intrecciate alla catena d’oro sul petto parevano ridere.

Efix lo guardava spaurito, con gli occhi pieni di un’angoscia da bestia ferita.

— Ma se quello muore di fame! L’ho veduto l’altro giorno. Sembra un pezzente, con le scarpe rotte. S’ha venduto anche la bicicletta, non ti dico altro!

— No, dica! Ha rubato?

— Rubato? Sei pazzo? Adesso lo calunni anche, quel fiorellino, quell’angelo dipinto. E cosa ruba? Non è buono neanche a quello.

— E.... cosa dice? Tornerà?

— Se gli passa un’idea simile in mente gli rompo i garetti, — disse don Predu, oscurandosi in viso. Ed Efix ebbe a un tratto l’impressione che finalmente le sue disgraziate padrone avessero trovato un appoggio, un difensore più valido di lui. Ah, sia lodato Dio: Egli non abbandona le sue creature. Allora le sue antiche speranze rifiorirono all’improvviso; che don Predu sposasse Noemi, che la casa delle sue padrone risorgesse dalle sue rovine. Ma la sua gioia si spense subito, d’un tratto, come s’era accesa, e di nuovo egli si trovò nel suo deserto, nel suo mare, nel suo