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presenza; ma Efix non era disposto alle confidenze. Don Predu l’aveva mandato a chiamare, ed egli era lì per attenderlo non per chiacchierare. La febbre e la debolezza gli davano un ronzìo alle orecchie; sentiva come il mormorare del fiume nella notte, e voci lontane, e aveva dentro la testa tutto un mondo suo ov’egli viveva distaccato dal mondo reale.

Non gl’importava più nulla di Giacinto, nè di Grixenda e neppure, quasi, delle padrone; tutto gli sembrava lontano, sempre più lontano, come se egli si fosse imbarcato e dal mare grigio e torbido vedesse dileguarsi la terra all’orizzonte.

Ma ecco don Predu che rientra: è meno grasso di prima, come vuotatosi alquanto. La catena d’oro pende un poco sullo stomaco ansante.

Efix s’alzò e non voleva più rimettersi a sedere.

— Bisogna che vada, — disse accennando fuori, come uno che ha da camminare, da andare lontano.

— Tanti affari hai? O vai a qualche festa?

L’ironia di don Predu non lo pungeva più; tuttavia l’accenno alla festa lo scosse.

— Sì, voglio andare alla festa di San Cosimo e San Damiano.

— Ebbene, andrai! Suppongo che non parti subito. Siedi: ho da farti una domanda. Stefana, vino!