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di più utile egli faceva: il resto del tempo lo passava oziando di qua e di là per il paese. Ma eccolo che vien su per il sentiero trascinandosi a fianco come un cane la bicicletta polverosa: arriva ansante quasi venga dall’altro capo del mondo e dopo aver gettato da lontano un involto al servo si butta per terra lungo disteso come morto.
E di un morto aveva il viso pallido, le labbra grigie; ma un tremito gli agitava la spalla sinistra, tanto che Efix spaventato trasse di tasca un tubetto di vetro, fece cadere sulla palma della mano due pastiglie di chinino e gliele mise in bocca.
— Mandale giù. Hai la febbre!
Giacinto ingoiò le pastiglie e senza sollevarsi si strinse la testa fra le mani.
— Come sono stanco, Efix! Sì ho la febbre: l’ho presa, sì! Come si fa a non prenderla, in questo maledetto paese? Che paese! — aggiunse come parlando fra sè, stanco. — Si muore: si muore....
— Alzati, — disse Efix, curvo su lui. — Non star lì: l’aria della sera fa male.
— Lasciami crepare, Efix! Lasciami! Che caldo! Non ho mai conosciuto un caldo simile: almeno da noi si facevano i bagni....
Che dirgli, per confortarlo? «Perchè non sei rimasto là?» Efix sentiva troppa pietà di tanta miseria prostrata davanti a lui, per parlare così.