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dei ceri. La folla non si decideva ad uscire, sebbene il prete avesse finito le sue orazioni, e continuava a cantare intonando le laudi sacre. Era come il mormorio lontano del mare, il muoversi della foresta al vespero: era tutto un popolo antico che andava, andava, cantando le preghiere ingenue dei primi cristiani, andava, andava per una strada tenebrosa, ebbro di dolore e di speranza, verso un luogo di luce, ma lontano irraggiungibile.

Efix con la testa fra le mani cantava e piangeva. Grixenda guardava avanti a sè con gli occhi umidi che riflettevano la fiammella dei ceri, e cantava e piangeva anche lei. E la pena dell’uno era eguale a quella dell’altra: e la pena di entrambi era la stessa di tutto quel popolo che ricordava come il servo un passato di tenebre e sognava come la fanciulla un avvenire di luce: pena d’amore.

Poi tutto fu silenzio.

Zuannantoni, impaziente di riprendere la fisarmonica, fu il primo a balzar fuori con la berretta in mano. Ma sulla porta si fermò, guardò in su e diede un grido. Tutti si precipitarono a guardare. Era la luna nuova che rasentava il muro del cortile e pareva volesse scender là dentro.


Dopo cena ricominciarono i canti e le grida attorno al fuochi: ballava persino don Predu,