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vogliamo scuoprire tutti i loro irraggiamenti per entro alle latebre della natura, essi vanno sempre via più discemando di lume, insino che abbujano. Incontra a noi come «a chi guarda col viso per una retta linea, che prima vede le cose prossime chiaramente; poi, procedendo, meno le vede chiare; poi, più oltre, dubita; poi, massimamente oltre procedendo, lo viso disgiunto nulla vede»: così il padre nostro, Dante, nel Convito 1. E, anco ai più fortunati, non vien mai fatto di giugnere alla evidenza piena, ma, al massimo, ad una certa verosomiglianza: di modo che ogni sistema è in piccolissima parte ciò che Platone chiama ἐπιςτήμη o scienza, ch’è vacua d’errore, immutevole, che coglie quel ch’è verace essere (οὐσία); e in grandissima parte è ciò ch’egli chiama δόξα o vero opinione, ch’è media tra la perspicua scienza e la scura ignoranza, che s’indirizza alla generazione (γένεσις), ed è suggetta ad errore ed è variabile 2. E Platone medesimo con ammirevole verecondia assegna alla fede (πίστις), ch’è facultà compresa nel genere della δόξα, lo stupendo dialogo suo sovra la natura 3. Veramente, solo il sistema di Dio è pura scienza (ἐπιςτήμη e σοφία), ma tutti quelli degli uomini non sono, poco dal più al meno, che amoroso studio di quello di Dio; per ciò gli antichi nostri ci tramandarono piamente il nome di filosofia, che non d’arroganza ma d’umiltade è vocabolo, come dice Dan-

  1. Trattato III, cap. III.
  2. De Rep. V, p. 477-480.
  3. Volgarizzamenti da Platone per lo stesso autore, pag. 88, edizione di Berlino 1862.