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oʃtinati ʃaranno, facciano la pruꞷva del mꞷdo loro; εt úʃinlo; ε noi uʃeremo il nꞷʃtro. il quale ci farà al manco queʃta utilità, che dimoʃtrerà la pronuntia, ch’io ʃeguo; perciὼ che in molti vocaboli mi parto da l’uʃo Fiorentino, ε li pronuntio ʃecondo l’uʃo Cortigiano, com’ὲ hꞷmo dico, ε non huꞷmo; ꞷgni, ε non ogni; compꞷʃto, ε non compoʃto; fꞷrʃe, ε non forse; hꞷr, ε non hor; biʃꞷgna, ε non biʃogna; vergꞷgna, ε non vergogna; spoʃa, ε non spꞷʃa; lettera, ε non lεttera; sꞷgno, ε non sogno; Rεgno, ε non Regno; ʃεnza, ε non ʃanza, εt alcuni altri ʃimili; come ne la nꞷʃtra Sophonisba ʃi puꞷ vedere. In alcuni altri vocabuli pꞷi ʃono quaʃi chε trꞷppo Fiorentino; come ὲ porre dico, ε non pꞷrre; poʃe, ε non pꞷʃe; meco, ε non mεco; ε così dico teco, ʃeco, me, te, ʃe; ε non tεco, ʃεco, mε, tε, ʃε; εt anchora leggie, tiεpido, allegro, debile, ʃtεtte, diʃio, ʃicuro, cuꞷre, εt altri molti ʃimili; come ne la predetta Sophonisba ʃi vede; ne la quale tanto hꞷ imitato il Toʃcano, quanto ch’io mi penʃava dal rεʃto d’Italia poter εʃʃere facilmente inteʃo; ma, dove il Toʃco mi parea far difficultà, l’abandonava, ε mi riduceva al Corti-