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respingendo da sé gl’ impulsi del secolo decimottavo. Quando si senti il bisogno d’una lingua meno accademica, prossima per naturalezza e brio al linguaggio parlato, molti si diedero al dialetto locale, altri si gittarono alle forme francesi, altri, col padre Cesari a capo, l’andavano pescando nel Trecento. Non veniva innanzi la soluzione piú naturale : cercarla cola dove era parlata, cercarla in Toscana. La Rivoluzione avea ravvicinati gl’ italiani, suscitati interessi, idee, speranze comuni. Firenze, la cittá prediletta di Alfieri e di Foscolo, dopo il Ventuno vide nelle sue mura accolti esuli illustri di altre parti d’Italia. Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in gara con quello di Milano. Manzoni e D’Azeglio andavano pe’ colli di Pistoia raccattando voci e proverbi della lingua viva. Gl’ italiani si studiavano di comparire toscani; i toscani, come Niccolini e Guerrazzi, si studiavano di assimilarsi lo spirito italiano. Risorgeva in Firenze una vita letteraria, dove l’elemento locale, prima timido e come sopraffatto, ripigliava la sua forza con la coscienza della sua vitalitá. Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti. Sembrava un contemporaneo di Lorenzo de’ Medici, che gittasse una occhiata ironica sulla societá quale l’aveva fatta il secolo decimonono. Quelle finezze politiche, quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale, sotto la quale ammiccavano le idee liberali gli «Arlecchini», i «Girella», gli «eroi da poltrona», furono materia di un riso non privo di tristezza. Era Parini tradotto dal popolino di Firenze, con una grazia e una vivezza che dava l’ultimo contorno alle immagini e le fissava nella memoria. Ciascun sistema d’idee medie, nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi, va a finire irreparabilmente nel comico. Tutto quell’equilibrio dottrinale, cosi laboriosamente formato, del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica del divino e dell’assoluto declinante in teologia, quel volterianismo inverniciato d’acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti.