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Il Chiabrera e il Filicaia furono anche poeti nazionali. L’uno lamenta la vita molle de’ guerrieri italiani o, com’egli dice, la leggiadria dell’ italica gente :

E dove

calzar potrassi una gentil scarpetta, un calcagnetto si polito?...

Lungo fora a narrar come son gai per trapunto i calzoni, e come ornate per entro la casacca, in varie guise serpeggiando sen van bottonature.

Splendono soppannati i ferraiuoli bizzarramente; e sulla coscia manca, tutti d’argento arabescati e d’oro, ridono gli elsi della bella spada.

Dell’altro è il verso celebre :

Deh, fossi tu men bella, o almen piú forte!

Ma l’Italia era per loro un sentimento cosi superficiale come la religione, un tema a sonetti e canzoni, come le Vendemmie o le Lodi di Cristina. Quando il Filicaia domanda all’Italia dov’ è il suo braccio e perché si serve dell’altrui, e ricorda che gli stranieri sono tutti nemici nostri e furono nostri servi, senti eh’ è a mille miglia lontano dalla realtá; che vagheggia un’ Italia di tradizione e di reminiscenza, di cui non è piú vestigio neppure nella sua coscienza; ch’egli medesimo non prende sul serio le sue maraviglie e i suoi furori, e che le sue parole sono ebollizioni e ciance rettoriche. I contemporanei erano pure fatti cosi; e ammiravano quel bel sonetto tirato giú con un solo impeto, tra mille splendori di una calda immaginazione, come ammiravano una bella predica, salvo a far tutto il contrario di quello che diceva il Vangelo e il predicatore.

Questa è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo: un mondo tradizionale tornato in moda, favorito dagl’ interessi, mantenuto nelle sue apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non ventilato e rinnovato, non contrastato e non difeso, non realtá e non idealitá, cioè a dire non praticato nella vita e non scopo o tendenza della