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intellettuale. Non tutti gli uomini hanno la visione intellettuale, perché non tutti hanno l’amore eroico : ne’ piú domina non la mente, che innalza a cose sublimi, ma l’immaginazione, che abbassa alle cose inferiori; e questo volgo concepisce l’amore a sua immagine:


                                    fanciullo il credi, perché poco intendi;
perché ratto ti cangi ei par fugace;
per esser orbo tu, lo chiami cieco.
     


L’amore eroico è proprio delle nature superiori, dette «insane», non perché non sanno, ma perché «soprasanno»: sanno piú dell’ordinario e tendono piú alto, per aver piú intelletto.

La visione o contemplazione divina non è però oziosa ed estrinseca, come ne’ mistici e ascetici: Dio è in noi, e possedere Dio è possedere noi stessi. E non ci viene dal di fuori, ma ci è data dalla forza dell’ intelletto e della volontá, che sono tra loro in reciprocanza d’azione: l’intelletto, che, suscitato dall’amore, acquista occhio e contempla; e la volontá, che, ringagliardita dalla contemplazione, diviene efficace o doppiata: ciò che Bruno esprime con la formola: «io voglio volere». Dalla contemplazione esce dunque l’azione: la vita non è ignoranza e ozio, anzi è «intelletto e atto mediante l’amore» secondo la forinola dantesca rintegrata da Bruno: è intendere ed operaie. Maggiori sono le contrarietá e le necessitá della vita, e piú intensa è la volontá, perché amore è unitá e amicizia de’ contrari o degli oppositi, e nel contrasto cerca la concordia. La mente è unitá; l’immaginazione è moto, è diversitá; la facultá razionale è in mezzo, composta di tutto, in cui concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto con lo stato, l’inferiore col superiore. Come gli dèi trasmigrano in forme basse e aliene, o per sentimento della propria nobiltá ripigliano la divina forma; cosi il furioso eroico, innalzandosi per la conceputa specie della divina beltá e bontá, con l’ale dell’ intelletto e volontá intellettiva s’innalza alla divinitá, lasciando la forma di soggetto piú basso:


                               Da suggetto piú vii divegno un dio...
Mi cangio in Dio da cosa inferiore.