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Questa etá dell’oro, collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi, ha ispirato a Dante una delle scene piú interessanti; ed è la pittura dell’antica e della nuova Firenze, fatta da Cacciaguida, uno de’ suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme : vedi l’ ideale dell’etá dell’oro e della domestica felicitá, con tanta semplicitá di costumi, con tanta modestia di vita; e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche : Dante si fa egli medesimo il suo piedistallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L’esilio non è rappresentato ne’ patimenti materiali; Dio riserba dolori piú acuti ai magnanimi : lasciare ogni cosa diletta piú caramente e domandare il pane all’ insolente pietá degli estranei, questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne’ versi divenuti proverbiali del piú misero e del piú grande. Ma è un dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall’alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a’ suoi piedi tutt’ i potenti della terra.

La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce è detta «intellettuale». Beatrice spiega cosi il suo riso a Dante :

S’ io ti fiammeggio nel caldo d’amore di lá dal modo che in terra si vede, si che degli occhi tuoi vinco ’l valore;

non ti maravigliar, ché ciò procede da perfetto veder, che come apprende, cosi nel bene appresso move il piede.

La beatitudine è la contemplazione, e la contemplazione è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono la veritá, non come idea ma come natura vivente.