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sia anche grazia: Dante stesso conosce e vuole a un tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L’intelletto è in cima della scala: l’amore dee essere inteso, se ne dee «avere intelletto».

Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema si ripresenta, ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è piú l’ ignoranza, la selva oscura; ma la sazietá e vacuitá della scienza, l’ insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva. La sapiente Beatrice si trasforma nell’ ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera : anzi il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde della vita. Ma al tempo di san Tommaso la ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto piú confidente quanto meno esperta della misura di sé e delle cose; le si domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale del mondo morale, la felicitá. Lo scopo della scienza non era speculativo solamente, ma pratico. Nell’ordine speculativo era giá conseguito il suo scopo, divenuta per Dante un libro chiuso di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee operare anche sulla volontá, menare a virtú e felicitá. E se questo miracolo non era ancora avvenuto, se la realtá era tanto disforme alla scienza, doveasene recare la cagione, secondo Dante e i contemporanei, all’ ignoranza. Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla all’opera. Indi l’ importanza che ebbe l’etica e la rettorica, la scienza de’ costumi e l’arte della persuasione.

II

I tentativi fatti, compreso il Convito, furono infelici. Trattandosi di veritá da esporre e non da cercare, manca lo spirito e l’ardore scientifico; manca in tutti, anche in Dante. La stessa esposizione non è libera, predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea uscire una letteratura filosofica;