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ix - il «decamerone» 303

     Vienne, ch’io serbo a te giocondo dono,
che io ho còlti fiori in abbondanza,
agli occhi bei, d’odor soave e buono.
     E siccome suol esser mia usanza,
le ciriege ti serbo, e giá per poco
non si riscaldan per la tua distanza.
     Con queste bianche e rosse come fuoco,
ti serbo gelse, mandorle e susine,
fravole e bozzacchioni in questo loco.
     Belle peruzze e fichi senza fine,
e di tortole ho presa una nidiata,
le piú belle del mondo piccoline...


Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio traggono pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto trova la sua Lia fra bellissime ninfe, delle quali contempla le bellezze parte a parte, fatto giudice esperto e amoroso. E tutti fan cerchio a un pastore che canta le lodi di Venere e di Amore. Sopravvengono altre ninfe, le quali «non umane pensava, ma dèe», e contempla rapito celesti bellezze, e di pastore si sente divenuto amante, dicendo: «Io, usato di seguire bestie, amore poco avanti da me non saputo seguendo, non so come mi convertirò in amante seguendo donne». Le belle ninfe gli siedono intorno, ed egli scioglie un inno a Giove e canta la sua conversione. Questi sono gli antecedenti del romanzo, sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze femminili in quella forma minuta e stancante che è il vezzo dell’autore. Lia propone che ciascuna ninfa canti la sua storia e canti la deitá reverita da lei, acciocché «oziose, come le misere fanno, non passino il chiaro giorno». Sedute in cerchio e posto in mezzo Ameto come loro presidente o antistite, cominciano i loro racconti. Sono sette ninfe: Mopsa, Emilia, Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta e Lia, ciascuna consacrata a una divinitá, Pallade, Diana, Pomena, Bellona, Venere, delle quali si cantano le lodi. Ne’ racconti delle ninfe vedi la vittoria dell’amore e della natura sulla ferina salvatichiezza degli uomini, e all’ozio bestiale tener dietro le arti di Pallade, di Diana, di Astrea, di Pomena e di Bellona: