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ix. morte di laura | i79 |
Chi non ha provato mai la noja, chi non ha provato come ogni minuto è un peso di piombo che ti schiaccia e ti strappa nella disperazione dell’impazienza il grido suicida: — Finirla una volta — ; colui non può sentire quanto pesa quel «gravosa e lunga», e con che violenza prorompe quel «chiamo il fine». Due pensieri sopraggiungono, addossati l’un sull’altro, contraddicentisi; e non è questo il cuore umano? — Vederla, vederla ancora una volta! oh non l’avessi mai veduta! — L’uno t’innalza oltre la tomba verso il cielo; l’altro ti ripinge in tutti i dolori del passato: trovi condensata in tre versi tutta una vita d’uomo. Questo sentimento angoscioso della privazione, del deserto che lascia nell’anima la morte dell’amata, rado è che rimanga in questa purezza, in questo stato di tensione. L’anima indocile, vicina a naufragare nel vuoto, si gitta nel passato, nell’«io fui!» e trova una trista compiacenza a fare e rifare l’inventario della sua perdita, con sempre l’ultima parola di ghiaccio: — E tutto è sparito! — .
Ov’è la fronte che con picciol cenno Volgea ’l mio core in questa parte e ’n quella? Ov’è ’l bel ciglio e l’una e l’altra stella Ch’ai corso del mio viver lume denno? . . . . . . . . . . . . Ov’è l’ombra gentil del viso umano, Ch’óra e riposo dava all’alma stanca, E lá ’ve i miei pensier scritti eran tutti? Ov’è colei che mia vita ebbe in mano? Quanto al misero mondo e quanto manca Agli occhi miei, che mai non fieno asciutti! |