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I concetti sono alti in una forma ridondante: gli diresti de’ gravi Romani avvolti nelle larghe pieghe delle loro toghe. Ma rimmaginazione è rasserenata dalla speranza: gli eroi escono da’ loro sepolcri col sorriso sul labbro, e l’impressione diviene irresistibile quando entra in iscena Fabrizio:

                                         Come ere’ che Fabrizio
Si faccia lieto udendo la novella!
E dica: Roma mia sará ancor bella.
     
Questo è il concetto fondamentale, ed il poetico, quello che resta della canzone. L’interesse comincia ora a rimpicciolire. Descrive lo stato de’ Romani di quel tempo in tre stanze, presentandoti da prima l’aspetto delle chiese, poi degli oppressi, poi degli oppressori. La prima parte è la meno felice. A quel tempo avean luogo giornalmente assalti di cittadini a suon di squilla:
                                         Né senza squille s’incomincia assalto.
Che per Dio ringraziar fur poste in alto.
     
Questa opposizione tra l’uso sacro delle campane e l’uso guerresco e profano, felicemente espressa, è quello solo che qui arresta il lettore; e, come è proprio all’ultimo, te lo riconcilia alquanto con l’intera stanza. L’autore ha scelto male il punto di vista. Nello spettacolo cosí drammatico che ha innanzi, non vede che le chiese deserte, chiuse a’ buoni, e i santi contristati di quell’abbandono. I soprusi dei grandi, le violenze de’ malandrini, le ire civili, tutto questo è compendiato in un piccolo verso, che si trova li come un servitore all’uscio, vergognoso di mostrar la sua faccia:
                                         Deh quanto diversi atti!      
Il che, appunto perché dice tutto, non dice nulla. Appresso vengono in iscena gli oppressi, donne, vecchi, fanciulli, fraticelli, ecc., vittime delle discordie civili, in una descrizione dove