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LA «FEDRA»
di Racine.
Di lavori nuovi non si è rappresentato al Carignano, dopo la Clelia del Gattinelli, che una commedia intitolata: Le facce di bronzo. Non ne ho a dir nulla: è una commedia nata morta: né vo’ aggiungere i miei biasimi a quelli degli spettatori e della stampa. Noterò solo due suoi pregi non comuni: è scritta in buona lingua, castigata e disinvolta a un tempo, ed è sparsa di parecchi motti spiritosi, la piú parte originali. Sembra lavoro di un uomo di sano gusto: niente che miri all’effetto, che solletichi i sensi; l’autore ha mirato al semplice ed al naturale. Ma il semplice è spesso arido, ed il naturale è spesso volgaritá: una commedia che non si aiuti di mezzi esterni e meccanici dee supplirvi con la vivace pittura de’ caratteri e de’ sentimenti; quanto la superficie è piú magra e squallida, tanto dee essere piú ricca la vita interiore: l’autore ha cansato il Seicento, ed è caduto in piena Arcadia; non ti dá il falso, ti dá il vuoto.
Ben lavoro nuovo si può chiamare per noi la Fedra di Racine, che in veste italiana è stata per piú sere applaudita al Carignano. Oggi non si può nominar la Fedra che il pensiero non corra tosto alla Mirra; non si può pensare a Racine che dietro a lui non si drizzi l’ombra di Alfieri; e questo consociato con mille pettegolezzi e vanitá e gelosie, di cui prima la stampa francese ci ha dato l’ignobile esempio. La critica oggi è una specie di mare morto, sulla cui superficie immobile vedi a galla ogni specie
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