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d’orrore risponde a questa immagine: la coscienza si ribella al cuore. La nutrice nomina Ippolito con disprezzo:

                                              — Cet Hippolyte......
Phèdre —                                                    Ah! Dieux!
                    

Qui è la crisi della scena; l’attenzione si raddoppia; s’intravvede qualche mistero orribile. E fin qui quante mutazioni! quante gradazioni! come lampeggia al di fuori l’anima tempestosa! Questo è il movimento drammatico.

Questo è giá molto, ma è ancora insufficiente alla poesia. Anche in Seneca vi è molto movimento, una ricca esplicazione del carattere; basta leggere la sua scena della dichiarazione, imitata da Racine. Ippolito vede Fedra esitante: la esorta a parlare.

                          Phèdre — Curae leves loquuntur, ingentes stupent.
Hippolytus — Committe curas auribus, mater, meis.
                    

Quel «mater» è di terribile effetto drammatico e fa presentire tutto l’orrore della situazione; lo stesso effetto fa il «signor...» di Alfieri: Mirra non osò dire: — Mio padre — . Ma Seneca non è poeta; e però tutto questo movimento è qualche cosa di artificiale, senza naturalezza e senza colore: l’anima vi rimane estranea. Seneca filosofeggia in versi; i sentimenti e le immagini ei te le muta in sentenze, in concetti astratti. — Perché non parli? — , domanda Ippolito. Fedra risponde con una sentenza:

                          Curae leves loquuntur, ingentes stupent.                     
Il pensiero è bello, ma «non erat hic locus»: ti fa sentire il freddo dell’astrazione; chi è appassionato, non esce di sé, non generaleggia. Il carattere non solo dee esser ricco di movimenti, ma, perché sia estetico, dee uscire dal cuore e dall’immaginazione, dee essere sentimento o immagine. Alfieri, che pel ca-