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turo di un pastore, che lacrima sopra due suoi fanciulli, sorpresi e uccisi dalla bufera.

                                                        Armando stette
A udir quei gridi; e non gli uscia che questo
Suon dalle labbra:
                         — Inutile ogni cosa!
Gran fallacia e non altro — .
                         

£ la malattia nel suo stadio prosaico, qualche cosa di simile alla morte: «anima estinta», dice il poeta, e se non estinta, certamente stupida.

Che cosa è la Toscana innanzi a questo malato? Che cosa lo ferma e lo impressiona? Una zingana, a cui chiede la ventura.

Palestro, Montebello, Superga non gli dicono nulla. Quei luoghi pieni di tante memorie non gli offrono che un invalido di Sant’Elena, rimbambito e cantatore del tempo andato.

Nelle Calabrie è un lupo che lo fiuta e lo lascia vivo. Piú in lá è ser Calluga, vecchio patriota abruzzese, a cui Plutarco guastò il capo, uscito dalle carceri matto. Poi incontri un becchino, che fa epigrammi scavando una fossa, e pochi passi oltre, una taverna e scene di ubriachi.

Che cosa offre la Sicilia a questo malato? Un assassino rifuggito ne’ boschi.

Che cosa Napoli con le sue cento maraviglie? Una conchiglia su cui il malato almanacca.

Questo mondo di ser Calluga e di Pachita, questo mondo d’invalidi, di becchini, di ubriachi, di matti, di zingane, di lupi e di conchiglie, questo mondo del delitto e del dolore, parto osceno, che rende immagine del decadimento e della dissoluzione, è l’eco, il di fuori della sconvolta immaginazione del malato, è il mondo della negazione e del mistero, materia di tante sublimi ispirazioni, e condotto qui fino ad un limite che condanna sé stesso, e si rivela falso.

L’uomo di questo mondo, che era di luogo in luogo, stupido a tutt’i miracoli della vita e della bellezza, sente una singolare predilezione pe’ cimiteri, pei ritrovi plebei, per le taverne, per