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E se quest’epigrafe vi pare essa stessa un enigma, il poeta si prende il fastidio di aggiungere questo comento:

Per una moltiplicitá di cagioni, inerenti all’indole umana ed esistenti nel mondo esterno, parecchie nature, anche forti, a certi tempi e in mezzo a certe condizioni di societá, cascano in ozii, in tedii, in sogni, che hanno quasi il carattere di morbi: ai quali se va accoppiato o il ricordo di qualche fiero disinganno patito, o la tendenza della mente alla negazione, o l’abito della fantasia alle tetraggini, questi mali possono avere esiti dolorosi, e qualche volta orrende catastrofi.

A questi morbi dell’intelletto e dell’anima son preparati i naturali rimedii nelle varie operositá e necessitá della vita comune; ma altri e piú potenti risiedono nell’ordine della religione e in quello della scienza. Per il piú piccolo poi e il piú delicato numero di quest’infermi, i farmachi dotati di maggior virtú sono riposti nella grandezza dell’amore e nella gloria dell’arte.

Se pur ciò medesimo basti contro le maligne insidie del Caso; il qual non par del tutto straniero agli andamenti e talvolta alle conclusioni della nostra vita.

E dopo questo comento si può mai aver l’impudenza di domandare a Giovanni Prati: — Cosa hai voluto fare? — .

— Teste dure! risponderebbe; ho voluto descrivere una malattia. —

Chi è Armando? È un malato.

E cosa è questo libro? È il poema di un malato.

Eppure un concetto cosí semplice, cosí chiaro non può entrare in capo a nessuno, e tutti a domandare : — Cosa hai voluto fare, Giovanni Prati? — .

E il buon Prati a rispondere :

                               Ti narro un tristo sognatori ti narro
Il suo tetro fastidio; e se talvolta
Cosa mormora in lui che ti somigli.
Non mi chieder di piú. Viemmi compagno
Per l’aspra landa, e mai non dimandarmi
Se sia tutta di spine, o se alcun segno