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e la desidera felice. La scena terza dell’atto quarto in cui si celebra il sacro rito, è la crisi della tragedia. Mirra in questo lungo sforzo ha logore le sue forze; le sue parole sono vivaci e risolute; ma gli occhi brillano di un ardore febbrile; ella è piena di una esaltazione fattizia. Innanzi a’ sacerdoti, mentre il Coro invoca Venere e chiama le benedizioni celesti sugli sposi, gli spettatori guardano con terrore il sembiante trasformato di Mirra e convulso: la natura, quanto piú repressa, con tanto piú impeto prorompe al di fuori. Si precipita verso la catastrofe. La fanciulla non ode piú, non vede piú; Venere la possiede tutta.

Chi al sen mi stringe? ove son io? che dissi?
Son io giá sposa? Oimè!...
Stupefatti noi la veggiamo respingere la madre, fuggire dalle sue braccia, guardarla con occhi infocati; poi pentirsi e chiederle perdono; poi imprecare, maledirla, riempier d’orrore i circostanti, e poi di nuovo:
Deh! perdonami, deh!... non io favello:
Una incognita forza in me favella.
Il mistero s’intravvede, funerei lampi spesseggiano a chiarirci la vista, eppur noi temiamo la luce giá tanto desiderata e chiudiamo volontariamente gli occhi per non vedere, per non credere quello che giá si dipinge nell’ansietá di tutti i volti. Padre e figlia stannosi dirimpetto, soli. Il padre alterna sdegni e carezze. Stringe fra le braccia la figlia trepida, che fugge e ritorna e fugge ancora, ebbra, insana: miserabile lotta del corpo infiammato e dell’anima inorridita
                    .  .  .  .  .  .  Ornai per sempre
Perduto hai tu l’amor del padre,
esclama Ciniro corrucciato
               .  .  .  .  .  .  Da te morire io lungi?..
Oh madre mia felice!... almen concesso
A lei sará... di morire., al tuo fianco.