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[ ii ]

JANIN E LA «MIRRA»


Nell’Ippolito di Euripide comparisce Fedra abbandonata della persona, col passo faticoso, il capo languente, macra, gli occhi cavi: ha tutte le apparenze di una malattia mortale. Che cosa è? È un Dio che si è gittato tutto in lei, che l’arde e la consuma, e tienla in un delirio e turbamento di sensi che dá pur talora luogo alla ragione: allora ella piange ed abbassa gli occhi per vergogna. È una delle piú pietose scene che ci abbia tramandata l’antichitá. Fedra ama il figliuolo del suo marito; ed il Coro che compiange i suoi mali, quando conosce ciò, manda un grido d’orrore. Ma notisi bene. Si abbonisce la cosa in sé, non Fedra — si teme la collera di Venere mostratasi in lei, invano ripugnante; tutti la chiamano sventurata; nessuno la dice empia, se non solo ella stessa, che non può scacciare da sé il nemico Iddio, e sente tutto l’orrore della sua passione, e la espia con la morte. L’influsso fatale di Venere e la passione rimasta a distanza, non incontrandosi mai sulla scena la matrigna e il figliastro, rendono tollerabile sul teatro la Fedra antica. In Racine, Venere è una parola rimasa per tradizione; il soprannaturale ci è per cerimonia; il fondo del dramma è lo svolgimento progressivo di una passione colpevole, ma non mostruosa. Qui non questione di teologia, ma di poesia. Un fatto viene rappresentato dal poeta secondo il giudizio che ne fanno i contemporanei e l’impressione che ne ricevono. Nella tragedia di Racine non ci è il sentimento di ciò che il fatto ha in sé di mostruoso e d’innaturale: non ci è né presso il poeta né presso gli spettatori.