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pier delle vigne | ii7 |
della sua abilitá segretariesca, egli può bene uscir su con quel suo serrare e disserrare di chiavi; e se parla dei suoi avversarii, può bene usare una personificazione rettorica, la «meretrice» che infiamma, sicché gl’infiammati infiammino Augusto. Il suicidio stesso non lo commuove; quell’istante supremo non vale a risvegliare in lui una ricordanza o un’immagine: è un concetto che gli esce dal labbro. Si sente in lui non l’uomo, ma il cortigiano e il trovatore. Ma vi è una cosa, una sola cosa seria che gli pesa, l’infamia che si tenta gittare sulla sua memoria, l’accusa che gli è lanciata di traditore. Qui è il patetico del racconto: qui la sua immaginazione si scalda, di sotto alla veste del cortigiano spunta l’uomo, e il suo linguaggio diviene semplice ed eloquente:
Per le nuove radici d’esto legno Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio Signor, che fu di onor si degno. E se di voi alcun nel mondo riede. Conforti la memoria mia che giace Ancor del colpo che ’nvidia le diede. |
A questa pianta una sola cosa avanza viva e presente di uomo, la sua memoria in terra, e strazia il cuore a vedere un tronco che, in nome delle sue radici ancor nuove, raccomanda quella parte di sé che gli rimane ancora uomo, la sua memoria. Essa è qualche cosa di vivente che non è lui, o che piuttosto è l’antico lui: egli è un tronco.
Noi siamo all’ultimo atto, alla scena delle spiegazioni. La spiegazione distrugge il fantastico: il misterioso vien meno. Quando la realtá è ancora nuova e poco nota, l’anima vive d’immaginazione, e popola la terra di fate, di giganti e di streghe: il reale uccide questo fantastico. Quando l’uomo non sa spiegare i fenomeni naturali, egli immagina esseri fantastici che sieno causa di quelli; la scienza uccide questo fantastico: Apollo col suo cocchio svanisce innanzi al telescopio di Galileo. Qui il fantastico è spiegato e diviene intelligibile, cioè a dire cessa di