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ii6 primo corso tenuto a torino: lez xvii


incomposti da’ moti simili d’un animale in collera, se non che quegli è un uomo che parla, che esprime un’anima ricca, e che spiega e nobilita quei moti animali che egli ha comuni colla bestia? Tale è la tragedia del demonio, mimica ed esterna: ben poco rispetto all’uomo, molto rispetto alla natura. La natura vi dá figura e colore: nel demonio la figura si muove ed il colore si anima. Epperò troverete nel demonio la figura congiunta sempre col movimento, la figura in azione (Cerbero, Arpie, Furie). Ponete in questo movimento tragico in luogo della furia Clitennestra agitata dal rimorso e dalla disperazione e la tragedia diverrá umana. Il movimento è cosí essenziale al demonio dantesco, che anche quando non è espresso, l’autore ve lo fa presentire.

                                         Quinci fur quete le lanose gote
[Al nocchier della livida palude,
Che intorno agli occhi avea di fiamme rote.]
               

Entriamo in Malebolge: il demonio mitologico sparisce, succede il diavolo. La storia del diavolo comincia sin dalla nostra antica madre Eva che porse troppo facile orecchio alle sue lusinghe; d’allora il diavolo continuò il suo mestiere tentando sotto insidiose forme i monaci del deserto e susurrando a noi fragili mortali dolci parolette e ingegnosi sofismi, co’ quali ci sforziamo di addormentare la nostra coscienza; vanamente; poiché avendo al di fuori aria di persuasi e di convinti, rimane sempre dentro di noi una voce che ci accusa: noi non possiamo mai ingannare noi stessi, né tampoco il demonio che ci suggerisce. Tale è il fondamento della scena nella quale il nero cherubino mena seco nell’inferno l’anima di Guido da Montefeltro. Costui dopo di aver militato in gioventú, raccolte le vele in vecchiezza, e rendutosi frate francescano, pensava di finire santamente i suoi giorni, quando «il gran Prete» chiamollo a sé chiedendogli modo di far suo Prenestino. Tentennando egli, il papa soggiunse: