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iv. l’«orlando innamorato» 7i
Turpin, che mai non mente, di ragione
Chiama Orlando in quell’atto un babbione,

Orlando ama anche Origille; cavalca con lei in groppa, sospirando la sera; venuta la sera, mentre si disarma, Origille gli dice d’aver visto un dragone. Orlando ne va in cerca, e frattanto Origille si mette a cavallo e vassene. Orlando la ritrova; essa arrossisce, gli chiede perdono. Cavalcano un’altra volta assieme, annotta un’altra volta: quando si affaccia una giovane e dice ad Orlando che il giardino della Fata Morgana, ch’e’ doveva distruggere, era li presso, ma che per ottenere il suo intento dovrebbe rimaner casto per tre giorni. Orlando si decide a rimaner casto quella sera: si sdraia sull’erba. Mentre russa, Origille gli ruba il cavallo e la spada. Non basta, ed Orlando è canzonato una terza volta da Origille. È questo un eroe, o non piuttosto l’Arlecchino e il Don Chisciotte del poema?

È dunque messa fuori discussione la lotta tra il fondo e la forma: tra il ridicolo che soverchia e la serietà con cui vengono trattati que’ fatti ridicoli.

Esaminiamo i pregi ed i difetti dell’ordito, che vi è sembrato stanchevole e noioso. Primo difetto è il suo illimitato: non ha principio né fine, manca d’un disegno centrale che ne dia la misura. Non ebbe il Boiardo tempo né di finire né di limare il suo poema, che termina al sessantesimo ottavo canto e giusto dove dovrebbe cominciare: giacché la parte seria è la guerra fra pagani e cristiani. Ariosto ha sagacemente ripreso quel principio, e fatto il vero poema del Boiardo:

     Le donne, i cavalier, l’armi, gli amori.
Le cortesie, le audaci imprese io canto.
Che furo al tempo che passaro i Mori
D’Africa il mare e in Francia nocquer tanto,
Seguendo l’ire e i giovanil furori
D’Agramante lor re, che si dié vanto
Di vendicar la morte di Troiano
Sopra re Carlo, imperador romano.