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LORENZO BORSINI

Lettera a Luigi di Larissé.


È quasi un mese, mio carissimo, che ti sono debitore di una risposta. E, mentre prendo la penna, ecco qua Lorenzo Borsini, che mi grida: — E me, dunque: dove lasci me? Ricordati il mio cantico — . Rispondiamo, dunque, a Lorenzo Borsini. Ma ecco ficcarsi per terzo un altro pensiero: — Bravo! e l’appendice? sono due settimane giá! — . Che farò? qualche altra versione dal tedesco?— Oh! oh!, mi par di sentire attorno; sempre lo stesso! il pubblico se ne è annoiato, e forse il direttore alza anch’egli le spalle. —

Smettiamo, dunque, e teniamo in serbo le altre versioni a miglior tempo. Che farò? Non puoi immaginare, mio caro, che cosa formidabile sia questo «che farò»?: spesso, perdi due o tre giorni con un «che farò» negli orecchi senza far nulla. Pensa e ripensa, finalmente mi sono appigliato a questa strana risoluzione. Voglio con una fava prender tre colombi; voglio scrivere a te di Lorenzo Borsini nel Piemonte: cosí fo due lettere ed un’appendice.

— Chi è Lorenzo Borsini? — mi chiederai tu. La storia è curiosa. Immaginati, mio caro, il tuo amico con venti anni di meno in sulle spalle, un tisicuzzo, giallognolo, smilzo, allampanato, con certi occhi spaventati, con certe braccia penzoloni da non sapermene che fare, diritto e tutto di un pezzo.

Allora io era qualche cosa di mezzo tra lo scolaro e il maestro: andava a scuola da Basilio Puoti, e faceva giá le mie