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i82 | frammenti letterari |
Restringiamoci a’ fatti, esaminandoli prima bene, e vedremo, dopo, quali deduzioni se ne possono cavare.
Nella Corte di Federico II, abbiamo un primo centro letterario. Gittiamo una rapida occhiata su questi primi trovatori. Ciullo d’Alcamo, il re di Gerusalemme, Rinaldo d’Aquino, Folco di Calabria, Ruggiero Pugliesi, Federico II e i suoi tre figli, Arrigo, Enzo e Manfredi, Pier delle Vigne, Guido e Odo delle Colonne, Iacopo da Lentino, ecc.
Invano leggo e rileggo: non vi trovo alcun vestigio di poesia nazionale: niente che sgorghi dall’intimo della vita sociale. Quante passioni in quel tempo! e quanta energia in quelle passioni! Alcune poesie sono state attribuite ad uno, e poi si è scoperto esser di un altro: e che importa? Le possono essere dell’uno e dell’altro; tutte si rassomigliano: non ci è imperatore, ministro o popolano: poetano tutti ad un modo. Che cosa ci è della loro personalitá? La poesia è la loro domenica: sembra ch’ei scrivano versi per obbliarsi: a quel modo che l’operaio si ubbriaca il di di festa per dimenticare che il dimani è lunedi.
Non solamente non vi è orma della pubblica, ma né della vita privata. Ciascuno mette in quello che pensa qualche cosa del suo cielo, de’ suoi monti, del suo paese, ciascuno mescola di sé tutto che gli si para dinanzi. Vivevano sotto il riso e gli ardori di un cielo meridionale; la natura lussureggiava a’ loro occhi; abitavano una terra dove le passioni sono accesissime e l’amore quasi una febbre. I loro versi sono uno spegnitoio: tutto ciò che vi cala, vi diviene tenebre.
Chi sono costoro? Non sono giá gli uomini dotti, i letterati: questi scrivono per la posteritá, per accattar fama; fanno periodi latini e non si degnano di scrivere in volgare, nella lingua del volgo. Sono forse il volgo? Neppure. Noi non abbiamo poesie popolari.
Chi sono costoro? Sono uomini colti, che vogliono divertirsi, passare il tempo «in onesto sollazzo», come dice il Buti. Si divertono, cantando, sonando, poetando e amoreggiando: la poesia è la «gaia scienza». In Corte di Guglielmo II (ii66) si trovava «di ogni professione gente. Quivi erano li buoni dicitori