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i08 | la poesia cavalleresca |
fuga universale. È una delle magnifiche ottave ariostesche: prima cupa, poi tenera e tumultuosa e finalmente ridicola:
Quando fu noto il Saracino atroce All’arme istrane, alla scagliosa pelle. Lá dove i vecchi e ’l popol men feroce Tendean l’orecchie a tutte le novelle, Levossi un pianto, un grido, un’alta voce, Con un batter di man ch’andò alle stelle; E chi poté fuggir non vi rimase, Per serrarsi ne’ templi e nelle case. |
Che farà Rodomonte? Prodezze? No; fa il guerriero artista. Si spassa sulla moltitudine a dar colpi estetici:
Qui fa restar con mezza gamba un piede. Là fa un capo sbalzar lungi dal busto: L’un tagliare a traverso se gli vede. Dal capo all’anche un altro fender giusto... |
Quel «giusto» vi esprime il voler di Rodomonte: — Voglio fare questo colpo in questo modo — :
E di tanti ch’uccide, fere o caccia, Non se gli vede alcun segnare in faccia. |
Scoppia l’infinito disdegno de’ poeti cavallereschi per la moltitudine tenuta per men che niente. L’Ariosto, con un tratto sanguinoso, le dà un brevetto di canaglieria:
Quel che la tigre dell’armento imbelle Ne’ campi ircani o là vicino al Gange, O ’l lupo delle capre e delle agnelle Nel monte che Tifeo sotto si frange; Quivi il crudel pagan facea di quelle Non dirò squadre, non dirò falange, Ma vulgo e populazzo voglio dire, Degno, prima che nasca, di morire. |