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sussieguo mi spiacque, mancarono gli applausi, rimasi freddo e mi tenni mal vendicato del pugno avuto.

Si annunziava al mio spirito un nuovo orizzonte filosofico; mi bollivano in capo nuovi libri e nuovi studi. Si apparecchiavano i tempi di Pasquale Galluppi e dell’abate Ottavio Colecchi, dei quali l’uno volgarizzava David Hume e Adamo Smith, e l’altro ch’era per giunta un gran matematico, volgarizzava Emanuele Kant. Lorenzo Fazzini era caduto di moda, tanto che per svecchiarsi aveva aggiunto al suo corso certe lezioni di economia politica, date dal suo piccolo fratello Antonio, giovane di grandi speranze, morto indi a poco, che primo fece conoscere a Napoli il Trattato del Rossi. Cominciò una reazione contro il sensismo, come fautore di empietà. Io vedevo a terra tutti miei idoli, e non ne avevo pietà, trascinato dalla nuova corrente. Il Re stesso fatto accorto del pericolo, toglieva il suo favore all’abate Capocasale, a monsignor Colangelo e ad altri sensisti in veste teologica, e credeva il buon uomo che Kant e Smith fossero roba meno infetta.

C’era nel mio cervello un turbinio, quando un giorno m’incontrai con Francesco Costabile, uno dei miei vecchi compagni della scuola del Fazzini. — Dove vai? — dissi. — Vado dal marchese Puoti — . Cosi per la prima volta intesi parlare di un uomo, che doveva avere una grande influenza sul mio avvenire.

VIII

IL MARCHESE PUOTI

Questo nome, già caro e popolare in Napoli, mi giunse nuovo. La mia vita era tra casa e biblioteca e non conoscevo che pochissimi amici dello zio, come un Corona, un Capobianco, un Boscero. — Chi è il marchese Puoti? — diss’io a Costabile. — Insegna l’italiano, — disse lui. — E credi tu ch’io debba ancora imparare l’italiano? — Sicuro; quell’italiano lì l’è un’altra cosa; vieni — . Cosi Giovannino e io ci trovammo scolari del marchese Puoti. Lo zio ci lasciò fare.