Pagina:De Sanctis, Francesco – La giovinezza e studi hegeliani, 1962 – BEIC 1802792.djvu/26

20 la giovinezza

anche lo studio della Diceosina di Genovesi. Qui c’era la famosa quistione delle forme di governo. Mi ricordo con che abilità se ne seppe cavare l’abate. Conchiuse ottima essere la forma mista; ma modestamente diceva essere questa l’opinione di Montesquieu, non la sua.

Di conserva con la metafisica andava la fisica. Era la Fisica sperimentale del Poli, un altro abate, credo, scritta nel solito italiano corrente. A me pareva di entrare come in una nuova stella o in un nuovo mondo, quando cominciava uno di questi studi. Come la metafisica, così la fisica mi facea girare il capo, mi tirava su come in un mondo superiore pieno di luce. Il professore aveva a sue spese fatto un magnifico gabinetto, che poi fu acquistato dall’Università. Aveva l’esposizione brillante. Mi par di vederlo tra quelle macchine animarsi, gestire, colorire; aria, luce, elettricità; come si esaltava la mia immaginazione! Quella scintilla elettrica me la sentiva correre per le ossa. Quell’uccellino che perdeva il fiato nella campana penumatica, mi toccava il core. Mi pareva essere in cielo vagante tra quei primi elementi e assistere alla creazione. Il professore si studiava di tirarci allo studio di ciascun particolare e faceva esperienze delicate; ma io era miope, gustavo poco quel che poco vedevo, e mi teneva nel largo, aiutandomi con l’immaginazione.

Dove proprio non fu possibile andare avanti, fu nelle matematiche. L’aritmetica ragionata non mi voleva entrare in capo, e a gran fatica giunsi fino alla moltiplicazione, non seppi mai fare una divisione; non dico nulla dei rotti, delle frazioni e dei problemi. L’abate ci faceva le operazioni sulla lavagna; io ripeteva bene, perché aveva memoria, ma non ne capiva nulla. Il medesimo mi avvenne con la geometria piana e solida. Facevo le figure bene; ma quando cominciavo con l’angolo a b c e la curva d e la retta f, e i triangoli e i cateti, mi pareva entrare come in una torre di Babele, e più andavo innanzi e più spropositavo, e quelle lettere mi ballavano innanzi e si mescolavano, e non c’era verso di cavarne un sugo, sicché correvo subito al finale: Quod erat demonstrandum. Per nascondere al maestro la mia confusione, mi mangiavo mezza la dimostrazione, ingoiando