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162 la giovinezza

Quante volte anche oggi rimemoro quei giorni, e dico: «Com’ero felice allora!» C’è nei giovani un sicuro istinto che li avvisa di tutto ciò ch’è nobile e sincero; ed è vero che i migliori giudici del maestro sono i discepoli, sono come il popolo, voce di Dio, giudice inappellabile di quelli che Io governano. Il loro affetto era così delicato, che, quando avveniva qualche sconcio, dicevano: — Non io facciamo sapere al professore — . Pure c’era un’ombra. Non mi credevano capace di favori, di protezioni indebite; ma cosa volete? quegli Eletti li, per grazia mia, turbavano alcuni; un po’ di gelosia, un po’ di vanità e debolezza umana: quella distinzione per ordine, quel carattere ufficiale, come dicevano, non andava a garbo. Le gerarchia dell’ingegno c’era, non la potevano disconoscere; ma tant’è, volevano riconoscerla loro, non ammettevano una gerarchia a priori, quasi per diritto divino, come diceva Luigi Lavista. Il quale un giorno saltò a dirmi: — Professore, sbarazzateci; questo nome di Eletti non ci va; vogliamo tutti lo stesso nome! — Cosi, dopo appena un anno, venne a noia una istituzione tanto nel suo principio magnificata. Io con buona grazia feci cader l’uso, e non si parlò più di Eletti. — Ed eccoci in piena democrazia, tutti uguali, — diceva Lavista, ch’era l’idolo della scuola.

Io dimagravo a vista d’occhio; talora mi vagava il cervello, cercando con gli occhi qua e là, senza uno scopo chiaro e consapevole. Quello star solo e concentrato nella scuola, lontano da ogni umana compagnia, aveva la sua parte in quegli accessi di umor nero, di mala contentezza. Gli amici mi vollero ammogliare. Usavo da un pezzo in casa dell’avvocato Tommaso J., uno stecco d’uomo che passava tutto il giorno in tribunale a far liti, il più spesso per conto proprio. Passava per uomo ricco, ma viveva con modestia e quasi con trascuratezza. Abitava in una casa che si credeva sua: poche stanze antiche, sdrucite dal tempo e dall’incuria. Noi altri non ci si guardava per il sottile; io distinguevo poco una stanza dall’altra, come poco una vivanda dall’altra: avevo altro pel capo. Figlia di don Tommaso era Caterina, cresciuta così alla grossa e alla buona, un po’ saputella, con un cervellino sottile e acuto, sullo stampo paterno.